Volontariato é: “La speranza di Elisa”
Per la rubrica “Volontariato è” riportiamo il racconto di Elisa Arosio, giovane di Lissone appena rientrata in Italia dopo un esperienza di cinque settimane nella missione di Niem nella Repubblica Centrafricana.
“Dio nelle cose più piccole ha messo tutto, anche quello che non vediamo. I semi di senapa dentro hanno molto di più di quello che appare”
Diceva così il sacerdote che mi ha sposato 5 anni fa durante l’omelia: mai come in queste 5 settimane trascorse in Centrafrica ho apprezzato il reale significato di queste parole.
Il mio cammino in Africa comincia un mercoledì di luglio quando il “mitico” padre Tiziano Pozzi viene a casa dei miei genitori per fare una chiacchierata con me e capire perché volessi partire con lui con tutta quella fretta.
Appena metto piede in Centrafrica, martedì 8 settembre 2015, la prima cosa che comprendo è che con la fretta qui non si va da nessuna parte e che per raggiungere una meta, come il villaggio di Niem, ci vuole solo tanta (tanta) pazienza e che tutto va affrontato YEKE-YEKE (cioè “piano-piano”, in sango).
I miei 36 giorni in Centrafrica sono stati un’esplosione di emozioni, piogge, colori, sguardi, strette di mano, ma soprattutto di sorrisi, un particolare che sul volto di un bimbo africano non manca mai.
A Niem ho visto nascere una nuova creatura per la prima volta nella mia vita e ho pianto come una bimba.
A Niem mi sono disintossicata da Facebook, cellulari e web: è un villaggio dove non c’è nessun tipo di comunicazione tecnologica, salvo una radio che usano i missionari un paio di volte al giorno per comunicare con le missioni vicine.
A Niem ho corso su una terra rossa lontana da casa insieme a tanti bimbi che cercavano in tutti i modi di starmi dietro e tenermi la mano (notavo che loro correvano a piedi nudi e io con le mie belle Nike) e, se cadevano in una pozza si rialzavano e continuavano a correre senza fare una smorfia, col sorriso sempre stampato in faccia.
Quando a fine settembre nella capitale sono scoppiati i disordini tra le varie fazioni, “Titti” (conosciuto così anche nel cuore dell’Africa oltre che in quel di Lissone) e gli altri missionari hanno cercato sempre di tutelarmi e garantire la mia permanenza in sicurezza.
Gli ultimi dieci giorni quindi mi sono spostata nella missione di Maigarò (poco fuori la città di Bouar), gestita da suore francescane. Dopo qualche giorno di difficoltà e, ammetto, paura per come poteva evolvere la situazione a Bangui, anche qui ho potuto assaggiare la loro straordinaria quotidianità.
A Maigaro ho ballato e suonato i bonghi con centoventi ragazze adolescenti che mi hanno trascinato nella loro gioia contagiandomi col loro ritmo.
A Maigaro ho giocato a calcio coi bimbi dei villaggi segnando ben quattro gol con una palla che dovevamo gonfiare ogni cinque minuti perché era distrutta.
L’insegnamento più grande che porto a casa è una parola che mi hanno insegnato durante il mio cammino in Africa: BE KOU, che letteralmente sarebbe cuore (BE) che aspetta (KOU) e per loro vuol dire speranza. Credo che una parola più bella e giusta per descrivere quello che ho vissuto in Africa non ci sia e ringrazio Dio, Titti e i miei genitori ogni giorno per avermi regalato questo viaggio e questa esperienza.
Ed è anche ciò che auguro a questo Paese: la speranza che prima o poi possa davvero arrivare la pace in tutti i cuori.
Un grazie e un ricordo speciale va anche a Isa.
Arrivederci Africa. Spero di ritornare un giorno.
Elisa Arosio