Volontariato é: Giovanni “Il centro Saint Michel, una rolls royce per i malati di AIDS”
Da anni, già prima del 2010 data in cui il Centro Saint Michel a Bouar è stato inaugurato, il dottor Giovanni Gaiera, specialista infettivologo all’Ospedale San Raffaele di Milano, collaborava con le missioni betharramite in Repubblica Centrafricana.
Una conoscenza profonda che ha voluto raccontare dall’inizio e che oggi l’ha portato ad essere un importante consulente della struttura cresciuta a 6000 chilometri dal suo posto di lavoro.
Mi piace raccontare come ho conosciuto questi strani missionari con un nome impronunciabile: betharramiti.
Tutto nasce quando facevo l’obiettore di coscienza nel “Centro Gabrieli” della casa alloggio Caritas per malati di Aids a Milano; era il 1991 e si presenta un volontario che si chiama padre Mario Longoni. Era lì per fare esperienza perché poi avrebbe fondato la casa-famiglia di Villa del Pino a Monte Porzio Catone alle porte di Roma. Ma non finisce lì.
Anche attraverso lo stesso padre Mario a settembre 1992, dovendo andare ad Anversa per un corso di medicina tropicale, do un passaggio in macchina a un certo padre Tiziano Pozzi, collega medico che non conoscevo fino ad allora e che doveva frequentare lo stesso corso. Dodici ore di auto insieme e poi qualche mese di frequentazione ad Anversa: tutte le domeniche io e mia moglie andavamo alla sua messa in italiano.
Appena finito il corso Tiziano è partito per la Repubblica Centrafricana, mentre con padre Mario abbiamo continuato a vederci nel Coordinamento delle case alloggio per Aids.
In uno di questo incontri mi avvisa che i betharramiti avevano deciso di creare in Centrafrica un centro di cura domiciliare per malati di Aids; nel 2010 vengo coinvolto nella formazione del personale locale e dei volontari della cooperazione internazionale e dopo di allora sono andato sette volte al Centre Saint Michel, anche se per poco tempo; ogni volta per 15 giorni, compresi i voli e il trasferimento in loco.
Penso che in Centrafrica non ci sia un posto in cui le persone in Hiv siano accolte e seguite così come al Centro, non solo da un punto di vista medico e sanitario; ritengo, infatti, che il Centro “Saint Michel” sia un’eccellenza a livello di Stato e ogni volta vedo che cresce e migliora.
L’assistenza, le visite, il laboratorio, la farmacia non hanno confronti in Centrafrica; seguono un numero di pazienti in continua espansione, mille persone circa, e hanno una ventina di nuove diagnosi al mese: nessuna struttura nel paese può vantare un “curriculum” del genere. E poi le relazioni: perché puoi anche dare sacchi di medicine, ma la malnutrizione resta a livello mondiale la causa principale di abbassamento delle difese immunitarie. La differenza la fa appunto la qualità.
Siamo infatti di fronte a un’infezione che non è più mortale ma cronica, se la manteniamo tale; la gente può conviverci a lungo, ma per farlo tutti i giorni bisogna prendere la terapia: e, se già è difficile per la nostra cultura molto medicalizzata, in una cultura ancora legata alla stregoneria e a pratiche rituali, in cui la morte è profondamente radicata nell’esperienza e non genera la paura tremenda che c’è da noi, ottenere un’aderenza al trattamento non è per nulla scontato. Si tratta del frutto di un lavoro continuativo di relazione con le persone che va oltre il gesto tecnico, sanitario, e approfondisce rapporti umani. È un dato unico.
Così come è un segno eccezionale seguire un centinaio di bambini orfani che tutte le settimane tornano a prendere la terapia e hanno esami perfetti.
Faccio un esempio: la tubercolosi è la seconda grande epidemia di quelle latitudini e uno dei problemi medici emerso da decenni è proprio mantenere in terapia le persone per tutto il tempo necessario, in quanto dopo due mesi si pensa di essere guariti e si mollano i farmaci; ma così non si guarisce, perché ci vuole un trattamento di almeno 8 mesi. Ecco: pensate il passaggio che si deve operare in termini culturali per convincere a un trattamento che non deve finire mai!
Ma la fama del Centre Saint Michel si tocca con mano vedendo il flusso di persone che va per fare il test Hiv perché ha fiducia. Se poi aggiungiamo un laboratorio da primo mondo, in termine di strumentazione e di competenza nel fare esami affidabili; se aggiungiamo la farmacia, l’attenzione a evitare le interruzioni dei rifornimenti di medicinali anche durante la guerra e nonostante le ruberie; se contiamo le risorse investite con tecnologie appropriate e al massimo del possibile: ebbene, possiamo dire che il Centro e tutta la rete che ad esso fa riferimento ed è coordinata dalla dottoressa Ione Bertocchi ha creato un sistema efficiente e adeguato. Non per nulla la stessa dottoressa Ione ha definito il Centro «la Rolls Royce della diocesi».
Certo: a Bouar si può drammaticamente ancora morire di Aids, ma perché a volte i malati arrivano allo stremo oppure perché non sono mai stati diagnosticati come tali (in Centrafrica si parla di 13-15% di positivi nella popolazione generale, e sono numeri da “brividi”). Con più risorse e più persone si può offrire un servizio ancora maggiore, ma comunque già ora il livello è eccelso.
Così come Niem, che essendo ospedale di brousse fa un lavoro meno specialistico, ma comunque è parecchie spanne sopra il livello erogato da altri dispensari anche di organizzazioni non governative o missionarie della zona.
Giovanni Gaiera