Volontariato é: Laura “In missione si getta la maschera del pregiudizio”

Volontariato é: Laura “In missione si getta la maschera del pregiudizio”

Per la rubrica “Volontariato è” diamo voce a Laura, giovane di Lecco, educatrice professionale presso la Nostra Famiglia di Ponte Lambro (Co), che quest’estate, insieme ad un’altra giovane, Federica, ha trascorso parte delle sue ferie vivendo un esperienza di missione presso l’Holy Family Catholic Centre a Ban Pong, in Thailandia.

Sono passati ormai 3 mesi dal mio ritorno a casa.
Ho vissuto per tre settimane nella missione Holy Family Catholic Centre, nel nord della Thailandia. Dove opera padre Alberto (o Po Pensa, come lo chiamano laggiù); non ero mai stata lontana da casa per un periodo così lungo e in un Paese così lontano.
È stato tutto molto semplice e naturale, come se fosse già stato stabilito che io partissi. Prendere in mano il sogno di partire, decidere, prenotare un volo… Mi sentivo tranquilla, determinata a partire. Quando ho detto agli amici che sarei partita, ho iniziato a sentire che era tutto vero, che sarei partita per davvero per la missione! Insieme alla consapevolezza e all’emozione, sono nati i primi dubbi: in un primo momento erano domande su questioni più concrete “cosa devo mettere in valigia? Servono dei documenti particolari? Farà caldo?”, poi in secondo luogo mi preoccupava la lingua: avrei dovuto farmi capire a gesti nella maggior parte delle situazioni e, più raramente, avrei trovato qualcuno che spiaccicasse qualche parola in inglese.
La testimonianza di molti amici che hanno vissuto un’esperienza come la mia mi ha aiutato a vederci chiaro e a comprendere che ciò che importa è la predisposizione del cuore e della mente, poco importa del resto.
Il ruolo che ho sentito di vestire è quello di “esploratrice”: ho cercato di immortalare tutti i luoghi e i volti che ho visto e di ricordarmi tutte le storie che ha raccontato padre Alberto; in una delle pagine del mio diario di bordo ho scritto di lui: “Ammiro molto il suo modo di capire le dinamiche, di mettersi in una posizione tale da comprendere la gente.“
L’aspetto più interessante dei suoi racconti è il suo punto di vista, mai fermo, ma sempre spostato verso l’altro, proiettato oltre il pregiudizio. Spesso pensavo “tra me e me” che non dev’essere stato facile imparare a vivere in un mondo diverso dal nostro. Eppure ho visto grande affetto per lui da parte di grandi e piccoli, frutto di relazioni di fiducia e affidamento.
Porto nel cuore le ragazze che ho conosciuto; le giovani che animano (nel vero senso della parola) il Centro: organizzano la giornata dei bambini e li aiutano nelle attività quotidiane. Con alcune di loro siamo riuscite a scambiare solo qualche parola, con altre sono nate amicizie, fondate sulla curiosità del cercare di capire come sia il mondo dell’altra, quali siano i suoi sogni e i suoi pensieri.
Al mio rientro qualcuno ha obiettato che concretamente io non abbia fatto niente di utile, se non proporre qualche gioco e qualche ballo. È vero: non ho lasciato traccia significativa del mio passaggio nei luoghi visitati e nei cuori delle persone incontrate. Più di quanto io mi aspettassi, questo viaggio è servito a me, in due dimensioni: ho avuto l’occasione di ritrovare me stessa, di misurarmi in esperienze nuove che mi hanno obbligato a togliere la maschera; secondariamente ho imparato (o cercato di imparare) a rispettare l’altro per come è.
Spesso la differenza tra noi stessi e l’altro ci fa sentire lontani, ma è necessario andare oltre per comprendere che la vera della relazione ricchezza è proprio ciò che ci rende diversi.
Certo, questa apertura verso l’altro richiede un certo sforzo, ma ripaga abbondantemente la fatica.

Laura Fezzi